Una tastiera come tavolozza, la fantasia come tela

Dumbo by Tim Burton

Flying_Dumbo È possibile emozionarsi ancora per Dumbo? Buona lettura!

La trama

Stati Uniti, 1919.

Un reduce della prima guerra mondiale (Colin Farrell) torna a casa senza un braccio, desideroso di riabbracciare moglie e figli. 

Dopo aver appreso alcune drammatiche notizie arriva la più tremenda: non potrà più addestrare cavalli, il circo è in crisi.

Si ritrova quindi a gestire gli elefanti, corpulosi escrementi inclusi (ovviamente).

Assiste alla nascita di Jumbo Junior, in seguito ribattezzato Dumbo [Dumb in inglese significa stupido, un gioco di parole riproposto nel film, ndr] per un caso del destino.

Come valorizzare la diversità, evitando la chiusura imminente del circo, la nausea data dal fetido odore degli escrementi degli elefanti salvando, se possibile, la dignità di Dumbo?

Silenzio in sala

Il film, diretto dalle magistrali mani di Tim Burton, non punta ad essere una trasposizione in 3D del capolavoro del 1941. Per fortuna.

Aggiungendo elementi nella storia come la vendita degli elefanti, togliendo la voce agli animali e introducendo finalmente esseri umani senzienti nella storia il mix risulta gradevole.

Nei panni del reduce di guerra/acrobata eccezionale con i cavalli troviamo Colin Farrell, interprete molto bravo anche nelle vesti del padre di P.L. Travers in Saving Mr. Banks.

Eva Green, sexy acrobata, porta giubilio anche ai padri costretti al pomeriggio domenicale cinematografico mentre nei panni comici di un impresario disastrato una confortante certezza, Danny De Vito.

La commozione. Quella bella. Quella a tradimento.

Sad_Dumbo_clown

Nella scena dove Dumbo cerca la proboscide della madre dietro le sbarre ho singhiozzato come un agnello a Pasqua, dopo aver scoperto che i suoi padroni non sono vegani.

La commozione è stata particolarmente intensa, vi dirò miei fedeli lettori.

Scomparse anche le voci da Quartetto Cetra degli anni ’40, sostituite all’occorrenza dalla brava Elisa, che intona la canzone della madre con sentimento.

Tim Burton, com’era facile prevedere, ha ridotto i canti all’essenziale, proponendo una sua versione degli elefanti rosa (che però, essendo fatti con bolle di sapone giganti, risultano meno efficaci rispetto alla versione animata).

Il topo Timothy quindi non si atteggia a vecchia guardia che difende il ragazzo, Dumbo non si ubriaca con una botte di vino enorme per annegare i dispiaceri, le elefantesse isteriche non compaiono nella pellicola a favore di due bambini.

I bambini risultano infatti la chiave di volta del film: riuscendo a vedere ciò che gli adulti, curiosi come un badile sull’asfalto inerme, non riescono e non vogliono vedere, si approcciano a Dumbo in modo più naturale e diretto, scoprendo il suo enorme potenziale.

La computer grafica è, a dir poco, sensazionale: Dumbo sembra un elefante vero e la voglia di palparlo, da parte del pubblico, è notevole.

La psicologia di Dumbo

Avendo ridotto i canti corali ai minimi termini rimane la storia, viva e vibrante come non mai.

Un elogio al diverso, che evidenzia in modo sublime la cattiveria e l’ignoranza dell’americano medio. Tutti bravi a sfogarsi su un elefantino innocente, che se la prendano con la madre che li può schiacciare anche solo sedendosi.

Una pecca che si può segnalare nel film è l’ottica nel 2018 trasportata nella realtà del 1920: un circo senza animali, la sensibilità nel non far avvicinare a Dumbo una bottiglia di champagne (mentre, nel film originale, è ubriaco come una spugna a suon di vino) fanno parte di una coscienza critica tipica del nostro tempo.

Nel 1941, come vi ricorderete, davano sigari a tutti, le persone afroamericane venivano usate per i lavori di fatica e la discriminazione delle colleghe di Mamma Jumbo rasentavano la critica razzista.

Tutte cose epurate nella nuova versione, a testimonianza del passare degli anni e di una maggiore sensibilità verso certe tematiche, profondamente ignorate all’epoca in cui uscì la prima pellicola.

In alcuni momenti Burton pecca, se così si può dire, di umanizzazione eccessiva: in questo caso Dumbo sembra praticamente un bambino umano ma a pochi importa.

La gente in sala che si abbraccia, con i fazzoletti sventolati come resa incondizionata, testimonia la capacità di questo film nel parlare al cuore delle persone, ricordando l’importanza della magia nelle nostre vite (e del rispetto per gli animali sul finale).

Dumbo è il ragazzino emarginato, è il talento incompreso, è la vittima designata dei bulli: è normale tifare per lui come se fossimo ad una partita della Nazionale, lui deve potersi riscattare da una situazione infame e ingiusta con coraggio e forza di determinazione.

Concludendo

Il nostro cuore, i nostri sentimenti volano con Dumbo: le lacrime scendono, inevitabili, durante la solitudine del nostro amico “alato”, portandoci ad una commozione viscerale… come vitelli innocenti.

Merito di questa commozione a fontanella va alla regia pulita ma attenta alla delicatezza del sentimento: Burton archivia il suo lato più oscuro restituendo dolcezza, amore e comprensione per un piccolo talento, visto da molti come un buffone da sfruttare.

Un grande omaggio ad una pellicola che molti di noi hanno amato, un ottimo lavoro a livello di trama e fotografia.

Complimenti davvero.

Voto: 9/10

Alla prossima, 

Marco

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