Il capolavoro di Tim Burton meno conosciuto: vediamolo insieme, buona lettura!
La trama
Un ragazzo viene chiamato da sua madre, a fronte del padre Edward morente. I due non si parlano da vari anni: il figlio è stanco delle storie fantastiche rifilate dal padre in ogni occasione.
Edward nasce ad Ashton, classico acquario della provincia americana anni ’50 da devastare con il lanciafiamme senza limitatore: colori accesi, tutti pronti al saluto e dalle terga escono fiori profumati anziché arie nefaste.
Capisce che deve cambiare vita e si avventura alla ricerca del suo posto nel mondo, vivendo una serie di incredibili avventure. Il problema è individuare quelle vere e quelle raccontate dalla fervida immaginazione del padre.
L’acquario della vita
Edward è il Flanders della situazione: salva vite, gentile con tutti, riceve le chiavi del paese così può chiuderlo di sera e rientrarci quando vuole, è il punto di riferimento della comunità.
Con il sorriso a trentadue denti che sfoggia in continuazione è un super-cittadino che risolve tutti i mali, compreso un gigante additato dalla popolazione perché ha fame.
L’attore che lo interpreta, alto ben 2 metri e 30 centimetri, nel film grazie ad una serie di giochi ottici sembra alto quasi 5 metri, suscitando ammirazione, terrore e stupore in ogni persona lo veda passare.
Ritroviamo, nel caso servisse ricordarlo, Helena Bonham Carter (all’epoca moglie del regista, 2003), sempre versatile oltre l’inverosimile: interpreta la vecchia strega, la moglie (o pseudo tale) del capo villaggio (qui di verde vestita) e la bambina cresciuta che ha atteso per anni il suo ritorno a Spectry, altro acquario vicino a casa dove tutti camminavano scalzi perché tanto non c’era bisogno di allontanarsi da lì.
Questi piccoli paradisi americani, oltre a mostrarci che il limite tra la pazzia e la sanità mentale è veramente labile, sono la critica dura e aspra di Burton alla società perbenista statunitense, con i suoi scheletri da nascondere sotto al tappeto e le sue volute ipocrisie.
Il film rappresenta una continua metafora della vita: il grande pesce è il padre che sta morendo, le avventure che crediamo inventate hanno un fondo di verità e questa “protezione”, che il padre adotta verso il figlio, è per non fargli perdere la capacità di sognare e di vedere le cose in modo diverso.
Definito da critici ben più blasonati di me il capolavoro di Tim Burton, che dire… non posso che essere d’accordo.
Sul finale felliniano alla 8 e mezzo, con i protagonisti di una vita riuniti per la trasformazione del padre in pesce gatto, ritroviamo il circo, le varie maestranze, questo senso di stupore e allegria che rappresenta, per grandi linee, il grande gioco della vita e la sua ironia.
Tutti ridono e sono felici, lo aspettano per salutarlo un’ultima volta, un modo per salutare un caro amico che sta per raggiungere nuovi territori, nuovi confini… nuove avventure.
Concludendo Un film ideale per padri e figli: raccontare storie incredibili, seppur con un fondamento di verità, serve a colorare la vita, a renderla speciale, a mantenere viva quella scintilla/fiamma che da piccoli ci invitava ad alzarci alle 6 di mattina per vedere i regali di Natale.
Un uomo che ha fatto di necessità virtù, sapendosi re-inventare e amando la sua famiglia più di qualsiasi cosa… solo che, spesso, capiamo la grandezza dei nostri padri quando sono in una bara di pino.
Meglio dunque apprezzarli in vita e capire i loro desideri, i loro sogni, cosa volevano comunicarci…
Il senso di gioia che trasmette questo film (con qualche tono dark, ma siamo ai minimi livelli storici per Burton), con varie citazioni da Edward Mani di Forbice a Fellini, e la possibilità di lettura a più livelli (le metafore vanno interpretate, ma il senso è abbastanza immediato) lo rendono speciale, unico, elevandolo rispetto al resto della produzione di Burton.
L’inizio del film, un po’ cialtrone, farebbe pensare ad una scampagnata stile Il grande Lebowski (e, in alcuni momenti, specialmente quando siamo al circo, possiamo quasi sovrapporli…), ma dalla metà in poi vira verso il nocciolo della questione: il figlio che cerca la verità su suo padre.
Un’analisi simile, in tempi più recenti, è stata proposta da Disney con Saving Mr. Banks, dove la giovane scrittrice ha un padre che le rimbomba la testolina di storie meravigliose, di cuori nobili e di una fantasia che non dovrà mai esser soffocata in nome del vil denaro.
Abbassando i toni trionfalistici disneyani il messaggio è lo stesso: un figlio che cerca la verità su suo padre (e, segretamente, di perdonarlo per non averlo capito in tutti questi anni), e non i meravigliosi racconti che sente da quasi trent’anni.
Amo e continuerò ad amare lo stop motion de La sposa cadavere (e le sue canzoni in stile black humor), la spensieratezza mista a crudeltà de La fabbrica di cioccolato, ma Big Fish è il film della maturità.
Miscela le grandi qualità narrative di Burton facendo riflettere sul rapporto padre-figlio con metafore, emozionandoci e straziandoci il cuore sul finale, ma sempre con un sorriso.
Poco conosciuto, un piccolo tartufo prezioso da riscoprire.
Da recuperare assolutamente.
Voto: 9/10
Marco
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